Raccolta di testi per il teatro in versi dialettali
Dedica: Ai miei figli
Anno di pubblicazione: 1988 – Vecchio Faggio Editore
PREFAZIONE
Prof. Marcello De Giovanni
La collana “Cultura e territorio” esordisce nella sezione letteraria con la silloge Abruzzo Teatro, col significativo sottotitolo Propostedialetto, del noto poeta teatino R. Fraticelli.
La raccolta, composta di due atti unici e di cinque monologhi (quattro dei quali interpretati dal popolare personaggio Zì Carminuccio), è impreziosita dall’elegante e magistrale presentazione del prof. Virgilio Melchiorre, le cui profonde osservazioni guidano il lettore verso una sicura comprensione dei contenuti dell’opera e delle intenzioni dell’autore a tal punto da rendere superflue altre considerazioni su questi versanti.
A me preme, piuttosto, dare rilievo alla proposta, quanto mai attuale, del Fraticelli per un impegno nel testo teatrale in versi, che comporta sul piano della comunicazione e dello spettacolo una osmosi degli elementi specifici del teatro e della poesia, rivelatrice di una sempre viva aspirazione all’unità artistica e di una tensione alla sperimentazione delle capacità espressive dello strumento linguistico, disciplinata dalla versificazione. Tali esigenze sono acutamente avvertite dagli ‘addetti ai lavori’ e sono state anche coralmente manifestate di recente nell’’incontro internazionale “Il teatro dei poeti”, tenutosi alla Sala Umberto di Roma nell’aprile dello scorso anno.
In questo approccio di ricerca sull’interazione fra gesto e parola, che contiene in sé non trascurabili argomenti di utilizzazione didattica, il Fraticelli usa scientemente il dialetto, con studiate modulazioni di registro. In esso trova la sua libertà espressiva, la possibilità di caratterizzare con naturalezza e autenticità la temperie popolare, il mezzo più idoneo per stimolare l’immediatezza di un rapporto col pubblico e per avviare una riflessione sulle origini stesse dello spettacolo. Ed un simile invito a riscoprire le connessioni primigenie fra poesia e teatro, affidandosi al dialetto, non può che arrecare beneficio, nuova linfa ed estro all’uno e all’altra e incoraggiare la poesia dialettale abruzzese a dispiegare le ali per scrutare più vasti orizzonti.
INTRODUZIONE
Prof. Virgilio Melchiorre
Con Abruzzo teatro, Raffaele Fraticelli ci consegna il tempo della sua maturità poetica. Ed è l’approdo ad una visiona composta, ma anche drammatica della vita: una visione che con pudore guarda al tempo di una tradizione quasi perduta, certo tradita nell’indifferenza dei consumi e dei servizi dell’era tecnologica; una visione che tuttavia può levarsi dal profondo passato per dire, con malinconica ironia o con dolorante saggezza, dell’esistenza e delle sue contraddizioni, ma anche delle sue speranze segrete, della sua fede più antica.
In questo senso i personaggi della raccolta sono tutti emblematici: L’Uomo dal fiore in bocca, Carmenelle de lu vente, Zi’ Carminuccio. Anche il terzo personaggio di questa raccolta, Zì Carminuccio, va letto nello stesso senso. I suoi toni non sono, all’apparenza, drammatici e la sua maschera sembra piuttosto quella della commedia divertente, ai limiti della farsa. E’ forse anche per questo che, dal lontano 1944 ad oggi, Zì Carminuccio è diventato un personaggio sempre più popolare ed amato dal pubblico di Fraticelli: uomo dei campi che cerca un contatto con l’ordine borghese e che invece trova solo complicazioni burocratiche, solo incomprensibili ragioni notarili.
Ma partiamo dall’Uomo pirandelliano, che è forse il caso più rivelativo: il percorso di una traduzione, con le sue differenze e le sue invenzioni, è spesso anche un indice quanto mai significativo. Ma poi fino a che punto si può, in questo caso, parlare di traduzione? Il tessuto del linguaggio pirandelliano nasce – com’è noto – da intrecci logici spesso raffinati e complessi, e si distende sovente con l’eleganza intellettuale, con l’amarezza critica e distaccata dell’uomo borghese. Come tradurlo, dunque, nei modi così sensitivi, così amabilmente contadini del linguaggio abruzzese? A questa impossibilità Fraticelli si è sottratto evitando la tentazione della traduzione “fedele”: le linee della sequenza pirandelliana potevano restare, ma il movimento del discorso andava rifatto e doveva ad un tempo saldarsi con altri ritmi, con altre invenzioni. In questo senso, appare già decisivo il passaggio dall’uso del “lei” a quello del “voi”: il distacco dell’interlocuzione finisce così col distendersi nella rispettosa partecipazione del plurale. E il distendersi esige ad un tempo che il discorso ritorni spesso su di sé, facendosi riflessione, allusione, rinvio ed infine pietà: cambiano i ritmi del discorso e nel ritmo cambia pure il movimento della coscienza.
Facciamo qualche esempio. Quando Pirandello dice dei malati che stanno distratti, “compresi, come sono del loro male”, Fraticelli traduce: “ognune sta penate pi’ li guaja sì”. E ancora, ecco l’Uomo di Pirandello che dice di sua moglie, delle angosce e dei disperati appostamenti con cui questa lo insegue. “E’ pazza…”, conclude l’Uomo. Ma Fraticelli traduce: “E’ ppazze! E’ ppazze! … Puverelle”. L’Uomo di Pirandello confessa a questo punto la tentazione di un gesto disperato: “se mi si fa un momento di vuoto dentro… lei lo capisce, posso anche ammazzare come niente tutta la vita in uno che non conosco [ … ] No, no [ … ] Ammazzerei me, se mai”. E Fraticelli: “Pecchè, vu’ me capéte bbone, se n’n zia maje me s’arevòteche lu cervelle … dicéme nghi nijente acchiappe e léve la vite a nu cristiane che manche chenosce [ … ] No … no [ … ] Caso mai… m’accedèsse jé … Accedèsse a mmè! … Chi reste a lùteme aremmóre lu foche! … “.
L’esempio qui si impone non solo per la diversità dei ritmi, ma anche per il passaggio dalla metafora elegante di “quel vuoto di dentro” alla plastica e rude immagine di “s’arevòteche lu cervelle”. E si noti ancor più l’aggiunta che chiude con l’amara sapienza dell’antico proverbio.
Vorrei ricordare anche altre aggiunte, forse ben più significative e più chiaramente risolte in un malinconico lirismo, che il testo pirandelliano non può certo consentirsi. Si pensi alla riflessione che l’Uomo fa, sull’anticamera dei dottori, sulla sedia che sta lì “vuota, impassibile, in attesa che un altro qualsiasi venga a occuparla”: luogo delle illusioni e delle angosce mortali. Fraticelli legge quell’impassibilità come il gioco crudele d’una trappola e riempie la pausa pirandelliana con un abbandono fantastico del protagonista:
“Lu ’cchiappacille prepare la rete
’ccuscì suttile ca propie ’n ze vede,
’m mezz’a le frasche, ’ndricciàte a li rame
ce mette la cajole e lu … ”richiame” …
La ggente dice ca quelle è nu cante
nisciune penze ca immeçe è nu piante;
lu arzelètte cecate, che strille
fa corre alloche li pòvere cillle …
s’acrédene … chi sa … ”.
L’inganno degli uomini diventa qui una metafora tragica e dice, con struggente pietà, dell’inganno che la vita stessa sembra nascondere in sé. E tuttavia l’ultima parola sarà piuttosto quella dell’attesa o della domanda che torna a scrutare oltre l’inganno. Si ricordi la sequenza finale dell’atto pirandelliano: l’Uomo dal fiore se ne va al suo destino di morte e chiede al viandante di contare i giorni che restano con i fili d’erba d’un piccolo cespuglio. L’ultima preghiera è però quella che chiede di scegliere un cespuglio “bello grosso”: un’istintiva impennata della vita, che l’uomo si concede quasi con pudore o con pietosa ironia. Subito dopo, come dice la didascalia, ne riderà. L’Uomo di Fraticelli invece non sa o non vuole piegarsi all’ironia del vinto. Se ne va non ridendo, ma “sorridendo” e, mentre va, sogna e s’interroga sulla bellezza che pur risplende nel piccolo specchio dell’erba:
“File di jerve, pettate di stelle,
ce s’ annasconne li luciacappille,
ce s ‘ha pusate le hocce di lune …
e jé le conte a une a une…
File di jerve, vulesse sapè…”.
Dove guarda questo desiderio di sapere e di che parlano queste “gocce di luna”, scese a specchiarsi nell’erba? Il lirismo di Fraticelli non è certo una scorciatoia a buon mercato: si direbbe che ogni volta rinasce dalle ceneri della contraddizione e canta dell’amore alla vita, ma non per illudere non per nascondere i segni della morte o della corruzione. Lo sguardo ai sereni riflessi della vita si dà allora solo come un rinvio. E la ricerca poetica si svolge, sì, dappertutto a cogliere i segni anche più piccoli della gioia, ma sa che questi segni sono pur sempre attraversati dal mistero della morte e del male: sono segni che valgono infine, non come approdo, ma appunto come rinvio, come anticipazione e speranza. Accade così che il vento delle stagioni, sentito per lo più come crudele e implacabile, alla fine viene desiderato come un ospite con cui andarsene chissà dove, forse dove la vita fiorisce per sempre:
“Aspette mo ch’arepasse lu vente,
ca mi c-i-appoje, e me ne vaje nghe Hèsse! … ”.
Ho citato gli ultimi versi di Carmenelle de Lu vente che resta, a mio avviso, l’invenzione più alta di questa raccolta. Sembrerebbe scritta col pensiero al grande Qohélet: la vita con i suoi ritorni, con i suoi circoli sempre uguali, appuntocome il vento che non si sa donde venga e che gira, rigira, porta e toglie, cieco messaggero del Destino.
…
“… oh coma se deverte lu Distine:
te vote e t’appallotte a piacemente;
avaste ddu’-tre scrucche de frustine
e cagne l’arie, arevóte lu vente! …
Lu sole intante sèguete la ròte;
lu tempe è tempe, nen ze pose maje!
La vite aricuminge ’n’àtra vote,
sopr’a li frussce che llasse li guaje …”
Ma Carmenelle fa pensare anche ad un altro grande contestatore della Bibbia, al povero Giobbe che grida all’inganno della terra e maledice il giorno della nascita:
“Lu core ’m bette nin g-i-avessa sta!
Nu carevóne, l’ardiche, ’na prete!…
Ha-voje, s’avastèsse pe ccampà!…
Lu sendemente, lu bbene, l’amore?!…
È fàveze! È busciarde!… ’Nn è lu vere!…
’Sta terre nghe ’na ’ccette le squartesse!…
Se sse putesse avé lu foche nere,
nghe quelle tutte cose l’abbruçesse!…
Pecchè? Pecchè? Pecchè? … monne smerdate,
c-i-avéte fatte nasce? Chi l’ha dette? …
Sempre ’m mezz’a lu fanghe, capistate;
’n gi sta nu jorne che nn’ è mmaledette!…”
Si direbbe anzi che questa nuova figura di Giobbe è ben più straziata, certo più straziante di quella biblica. Non si tratta dell’uomo ricco e felice, che la sorte ha mortificato e piegato senza ragioni, che tuttavia alla fine ha restituito a se stesso. Si tratta piuttosto d’una povera creatura che nasce nella miseria sui cui la sorte imperversa, prima con la morte della madre, poi con la violenza della guerra e della solitudine: una violenza che penetra nelle sue carni e finisce per darle un figlio straniero. Questo figlio è, per gli altri, segno di vergogna, ma Carmenelle sa amarlo con l’orgoglio dell’innocenza e della rivolta: potrebbe essere finalmente l’inizio di una vita nuova. Invece anche questo figlio le sarà tolto: la morte sta pur sempre in agguato, “… se fa ‘na resate” e non c’è nascondiglio che possa distrarla! Carmenelle, alla fine, anche per sé potrà di nuovo invocare solo il vento della morte.
Carmenelle – non c’è dubbio – è un personaggio tragico e Fraticelli non esita a disegnarla così, con una passione incontenibile, con un crescendo che richiama la migliore drammaturgia barocca. E tuttavia i toni della tragedia possono risuonare proprio perché, sullo sfondo, a tratti, si stagliano inconfondibili i segni d’una vita che pur si annunzia e che pur sembra credibile. Basta un nulla -e qui ritorna la consuetudine di Fraticelli con le piccole cose, con le immagini “minori” del mondo- basta un nulla, un alito dolce del vento o un tenero belato sui monti, e già sembra che l’esistenza possa riprendere:
“La Morte nin gi sta, se n’ha scappate,
la guerre mo se scorde, finalmente!…
Oh pecurelle a la stalle a ’ss ’ammonte,
m’avéte ’ndese? Mi stete a chiamà?
Venghe de corse, arijamme a la fonte,
come ’na vote ve voje ambraccià”.
In fondo, basterebbe ben poco a far cantare questa piccola Carmenelle de lu vente, cresciuta sempre all’aperto, essa che appena sa di sua madre e che piuttosto s’è nutrita nei colorì del sole e della luna, e nei giochi di pietra tagliente:
“Sò nate e sò crisciute suletarie,
de mamme e patre sò ’ndese l’addore …
nu ccune de bbene me l’ha date l’arie.
Sò resperate li ragge di lune;
me specchie nghe lu sole la matine,
e ne’ m’ha ’ccarezzate maje nisciune …
soltante certe fratte, nghi li spine!…
Li pite, ècche, arecorre, arepazzìje
nghi li tippune e le prete tajente;
oh nùvele, anzignéteme la vije …
Sò jé, sò Carmenelle de lu vente!…”.
Eppure il circolo del tempo sembra cancellare anche queste piccole verità, questi sottili desideri. Sembra infine che la saga di Carmenelle debba concludersi in uno sguardo liricamente teso, ma tuttavia dolorosamente piegato alla fine. E, così, ecco il cielo delle stelle, ma ormai per cogliervi solo il triste segno dei passaggi:
“Li stelle cadenti, cale e scumbansce;
è gnè nu làppese che scrive aleste,
pe’ scangellà caccose che finisce,
come pi ddice:… è fatte pure queste!”.
Storia di solitudine, dunque, questa di Carmenelle, come quella dell’Uomo dal fiore in bocca: solitudine nel tempo della vita e delle stagioni, ma anche solitudine nella storia degli uomini. Il dialogo dell’Uomo era in realtà solo un artificio per dar parola alla disperazione del monologo. E ancor più i pochi dialoghi di Carmenelle non sono che fantasmi fugaci per un racconto che non ha interlocutori.
Gli spettatori di questo grottesco resto dei campi sono in realtà già uomini del borgo, se non uomini della città, e per questo possono ben ridere della sua ingenuità. Ma, in se stesso, Zì Carminuccio è di nuovo figura di un mondo senza comunicazione: parola della terra che, lasciata a se stessa, può solo perdersi nel riso benevolo e distaccato dei vincitori, gli uomini della città appunto, noi stessi infine. Del resto, sembra che il povero Carminuccio faccia proprio del tutto per mettersi alla berlina: vorrebbe a suo modo superarsi e cerca di intendere le “ragioni” del linguaggio colto, le regole del ceto impiegatizio o quelle degli avvocati o dei professionisti urbani, ma la sua logica è ancora legata alla semplicità rettilinea del mondo contadino ed è come tale destinata alla contraddizione più farsesca.
Resto d’un tempo che se ne sta andando e segno d’un passaggio senza ritorni, anche Zì Carminuccio è così un uomo solo, diviso fra mondi che deve condividere, ma che – in un modo o nell’altro – o non gli appartengono più del tutto o non possono ancora appartenergli. Allo spettatore che abbia già fatto il passo verso la “città” questo personaggio dei campi suscita dunque solo ironia e divertimento. E tuttavia per chi – al di là delle prime apparenze – sappia ancora ascoltare, Zì Carminuccio dischiude sentimenti di tenerezza e di nostalgia per un mondo che aveva i suoi linguaggi e i suoi valori e che ormai non può più essere raggiunto o può essere appena toccato. Zì Carminuccio, come Carmenelle (la stessa identità dei nomi sta a suggerirlo), non sono dunque che controfigure – l’una comica e l’altra tragica – della stessa miseria: nostalgia e smarrimento, desiderio e impossibilità d’una civiltà contadina che non sappiamo più intendere e che tuttavia avvertiamo come un valore che pur si sarebbe dovuto incontrare.
Di questi valori e di questo mondo che ancora potrebbe essere, in qualche modo ripreso, Fraticelli ci parla con passione e con una penetrazione sempre più intensa. Ma anche Fraticelli è un uomo della città e la distanza dal mondo contadino passa nella sua stessa coscienza di cercatore attento, pur sempre infaticabile. E’ forse per questo che il suo dialetto ha dovuto raccogliersi solo in monologhi.
La coralità drammaturgica è prima di tutto partecipazione e condivisione di valori, di storie, di tradizioni, che si animano nella fedeltà del proprio universo. E invece l’universo contadino resta pur sempre alle spalle dell’uomo cresciuto nelle strette della nuova civiltà: può risuonare nella nostra memoria, ma forse non può più risponderci e non può distendersi nella coralità dei linguaggi o nel complesso tessuto del dialogo e delle vicende. Può solo venirci incontro come un monologo, come un frammento dunque, come una parola solitaria che non si intreccia con le nostre parole e con la nostra logica. Ma, pur da questa distanza, quella parola risuona pur sempre come un resto a cui dovremmo tornare: come un valore di sapienza di cui dovremmo ancora nutrirci per non perdere del tutto la nostra identità storica.
In questo senso la poesia di Fraticelli costituisce un segno di contraddizione, ma anche un varco a cui siamo chiamati con insistenza. Dovremmo sentire il richiamo umile e profondo. Dovremmo passarci e non soltanto per il solo piacere del riposo festivo.
SOMMARIO
PARTE PRIMA
– L’inno dell’amore, p. 23
(dalla prima lettera di S. Paolo Apostolo ai Corinzi) [13-1, 13]
Monologo/ versi
– L’uomo dal fiore in bocca , p. 29
Atto unico
– Carmenelle de lu vente, p. 51
ovvero: Il figlio straniero
Atto unico/ versi
PARTE SECONDA: FOLK/ PERSONAGGI
–“Zì Carminuccio”, p. 85
– Brindisi al Guerriero di Capestrano, p. 87
Monologo/ versi
– Forti e gentili – ovvero: conferenza sul peperoncino piccante “Lu lazzarette”, p. 91
Monologo/ versi
– La terre, p. 96
Monologo/ versi
– Lu corne, p. 98
Monologo/ versi
GLOSSARIO, p. 103