una visione che tuttavia può levarsi dal profondo passato per dire, con malinconica ironia o con dolorante saggezza, dell’esistenza e delle sue contraddizioni, ma anche delle sue speranze segrete, della sua fede più antica.
In questo senso i personaggi della raccolta sono tutti emblematici: L’Uomo dal fiore in bocca e Carmenelle de lu vente.
. . .
Il lirismo di Fraticelli non è certo una scorciatoia a buon mercato: si direbbe che ogni volta rinasce dalle ceneri della contraddizione e canta dell’amore della vita, ma non per illudere non per nascondere i segni della morte o della corruzione. Lo sguardo ai sereni riflessi della vita si dà allora solo come un rinvio. E la ricerca poetica si svolge, sì, dappertutto a cogliere i segni anche più piccoli della gioia, ma sa che questi segni sono pur sempre attraversati dal mistero della morte e del male: sono segni che valgono infine, non come approdo, ma appunto come rinvio, come anticipazione e speranza.
Accade così che il vento delle stagioni, sentito per lo più come crudele ed implacabile, alla fine viene desiderato come un ospite con cui andarsene chissà dove, forse dove la vita fiorisce per sempre:
Aspette mo ch’arepasse lu vente
ca mi c-i-appoje, e me ne vaje nghe Hèsse!…
Ho citato gli ultimi versi di Carmenelle de lu vente che resta, a mio avviso, l’invenzione più alta di questa raccolta. Sembrerebbe scritta col pensiero al grande Qohélet: la vita con i suoi ritorni, coi suoi circoli sempre uguali, appunto come il vento
che non si sa donde venga e che gira, rigira, porta e toglie, cieco messaggero del Destino.
…
oh coma se deverte lu Distine:
te vote e t’appallotte a piacemente;
avaste ddu’-tre scrucche de frustine
e cagne l’arie, arevóte lu vente! …
Lu sole intante sèguete la ròte;
lu tempe è tempe, nen ze pose maje!
La vite aricuminge ’n’àtra vote,
sopr’a li frussce che llasse li guaje …
Ma Carmenelle fa pensare anche ad un altro grande contestatore della Bibbia, al povero Giobbe che grida all’inganno della terra e maledice il giorno della nascita:
Lu core ’m bette nin g-i-avessa sta!
Nu carevóne, l’ardiche, ’na prete!…
Ha-voje, s’avastèsse pe ccampà!…
Lu sendemente, lu bbene, l’amore?!…
È fàveze! È busciarde!… ’Nn è lu vere!…
’Sta terre nghe ’na ’ccette le squartesse!…
Se sse putesse avé lu foche nere,
nghe quelle tutte cose l’abbruçesse!…
Pecchè? Pecchè? Pecchè? … monne smerdate,
c-i-avéte fatte nasce? Chi l’ha dette? …
Sempre ’m mezz’a lu fanghe, capistate;
’n gi sta nu jorne che nn’ è mmaledette!…
Si direbbe anzi che questa nuova figura di Giobbe è ben più straziata, certo più straziante di quella biblica. Non si tratta dell’uomo ricco e felice, che la sorte ha mortificato e piegato senza ragioni, che tuttavia alla fine ha restituito a se stesso. Si tratta piuttosto d’una povera creatura che nasce nella miseria sui cui la sorte imperversa, prima con la morte della madre, poi con la violenza della guerra e della solitudine: una violenza che penetra nelle sue carni e finisce per darle un figlio straniero. Questo figlio è, per gli
altri, segno di vergogna, ma Carmenelle sa amarlo con l’orgoglio dell’innocenza e della rivolta: potrebbe essere finalmente l’inizio di una vita nuova. Invece anche questo figlio le sarà tolto: la morte sta pur sempre in agguato, “ … se fa ‘na resate” e non c’è nascondiglio che possa distrarla! Carmenelle, alla fine, anche per sé potrà di nuovo invocare solo il vento della morte.
Carmenelle – non c’è dubbio – è un personaggio tragico e Fraticelli non esita a disegnarla così, con una passione incontenibile, con un crescendo che richiama la migliore drammaturgia barocca. E tuttavia i toni della tragedia possono risuonare proprio perché, sullo sfondo, a tratti, si stagliano inconfondibili i segni d’una vita che pur si annunzia e che pur sembra credibile. Basta un nulla -e qui ritorna la consuetudine di Fraticelli con le piccole cose, con le immagini “minori” del mondo- basta un nulla, un alito dolce del vento o un tenero belato sui monti, e già sembra che l’esistenza possa riprendere:
la Morte nin gi sta, se n’ha scappate,
la guerre mo se scorde, finalmente!…
Oh pecurelle a la stalle a ’ss ’ammonte,
m’avéte ’ndese? Mi stete a chiamà?
Venghe de corse, arijamme a la fonte,
come ’na vote ve voje ambraccià.
In fondo, basterebbe ben poco a far cantare questa piccola Carmenelle de lu vente, cresciuta sempre all’aperto, essa che appena sa di sua madre e che piuttosto s’è nutrita nei colorì del sole e della luna, e nei giochi di pietra tagliente:
Sò nate e sò crisciute suletarie,
de mamme e patre sò ’ndese l’addore …
nu ccune de bbene me l’ha date l’arie.
Sò resperate li ragge di lune;
me specchie nghe lu sole la matine,
e ne’ m’ha ’ccarezzate maje nisciune …
soltante certe fratte, nghi li spine!…
Li pite, ècche, arecorre, arepazzìje
nghi li tippune e le prete tajente;
oh nùvele, anzignéteme la vije …
Sò jé, sò Carmenelle de lu vente!…
Eppure il circolo del tempo sembra cancellare anche queste piccole verità, questi sottili desideri. Sembra infine che la saga di Carmenelle debba concludersi in uno sguardo liricamente teso, ma tuttavia dolorosamente piegato alla fine. E, così, ecco il cielo delle stelle, ma ormai per cogliervi solo il triste segno dei passaggi:
Li stelle cadenti, cale e scumbansce;
è gnè nu làppese che scrive aleste,
pe’ scangellà caccose che finisce,
come pi ddice:… è fatte pure queste!
Storia di solitudine, dunque, questa di Carmenelle, come quella dell’Uomo dal fiore in bocca: solitudine nel tempo della vita e delle stagioni, ma anche solitudine nella storia degli uomini. Il dialogo dell’Uomo era in realtà solo un artificio per dar parola alla disperazione del monologo. E ancor più i pochi dialoghi di Carmenelle non sono che fantasmi fugaci per un racconto che non ha interlocutori.