Antologia poetica in dialetto abruzzese
Con note storiche bilingue (Italiano – Inglese) –
12 liriche in versione sia dialettale sia italiana
Dedica: A mia moglie, ai miei figli, nipoti e pronipoti
Anno di pubblicazione: 2019 – EXFLOR Editoria
PRESENTAZIONE
Prof.ssa Eide Spedicato
«Ho sentito in me una tempesta di parole, abbastanza da scrivere centinaia di canzoni e altrettanti libri. Ma so che queste parole che sento non sono mia proprietà privata. Le ho prese in prestito da voi… e… ho preso in prestito la mia vita dalle opere della vostra vita… L’unica storia che ho sempre cercato di scrivere siete voi… Voi siete i poeti, e la vostra lingua di tutti i giorni è la nostra migliore poesia scritta dal migliore poeta»
(Woody Guthrie, Born to Win)
Può apparire stravagante che la presentazione di un libro di versi si dipani sul dettato dell’antropologia, e trascuri i tracciati suggeriti dalla critica letteraria, come prammatica vorrebbe. Il risultato è un rilevamento di dati sommersi che introducono nel perimetro di una terra nervosa e parlante, allegra e insinuante, drammatica ed inquieta, scevra da retoriche e manierismi, quantunque folta di cose piccine e palpitanti, dove molto del folclore locale vive e rivive con la fedeltà di un’inchiesta. Va da sé: Raffaele Fraticelli non è un documentarista; è – come ebbe a dire di lui per esempio Mario Pomilio – un cantastorie (Parole de Vangele, 1976), un affabulatore sommesso e persuasivo che sa raccontare e commentare con traboccante, affettuosa emozione la sua città e la sua gente. Un affabulatore che è insieme narratore e interprete, regista e attore dell’evento che descrive e che continuamente rinnova, rielabora, accresce di inediti dettagli. Un affabulatore che è sempre dentro le sue storie, i suoi bozzetti, i suoi quadri, anche quando assume toni distaccati e lontani, o si abbandona a garbati giudizi, o lascia sprigionare la sua particolare vis comica e drammatica. Un affabulatore che se istintivamente ha aggirato la trappola della retorica, gli stilismi, i compiacimenti verbali, intenzionalmente – e quasi comprimendo la sua consapevolezza letteraria – ha scelto di fare «una poesia di grado umile» (Pomilio, 1979) che respira l’immediatezza del linguaggio nativo e poggia sulla schiettezza di ciò che è sobrio e senza orpelli. Un affabulatore che lega gli uni agli altri tanti personaggi minimi, quasi fossero un girotondo di figurine, mette le loro voci in concertino (Di Cola in Glasnost, Voce de pópele, 1989), usa la moviola per farne gustare i molteplici tic. Un affabulatore che si divide fra due mondi e si muove come un funambolo fra l’universo popolare, la logica della semplicità rettilinea, la saggezza di una gente antica e le strettoie della civiltà urbana, l’ordine borghese e burocratico, l’adesione senza cuore a norme imposte. Un affabulatore alacre e agguerrito che nel contestare il manicheismo dell’anonimia culturale allestisce la «difesa proletaria d’un piccolo fuoco sacro contro le pretese annessionistiche d’una megacultura o di una megalingua universale» (Strozzieri, in Prova d’autore, ovvero rileggiamo la luce, 1990). Un affabulatore, dunque, ansioso di salvare un patrimonio di pensieri e di cose sempre più appannato ed insidiato dalla voracità di un mondo distratto e malato di fretta, troppo presentista per poter apprezzare le capricciose imprevedibilità e i gustosi labirinti di senso di un universo tutto giocato sul valore della tradizione, sugli avanzi di cerimonie dimenticate, su pratiche smesse che ritualizzano il tempo e i sentimenti. E’ all’interno di questo alveo di «ricerca del tempo perduto» (Circeo, Tra lume e lustre… penombra nel cenacolo dannunziano, 1988) che si situano anche questi Giorni di festa e dintorni, un almanacco demologico in versi, ordinato secondo le principali sequenze del ciclo dell’anno. E’ ovvio: se il progetto è quello di ripercorrere i tratti e gli elementi della commedia quotidiana, secondo quanto il calendario contrappunta, è inevitabile che l’incipit di questa inusitata gazzetta ponga il lettore all’istante e in presa diretta con la festa liturgicamente più significativa del calendario cristiano, il Natale; esattamente come l’otto dicembre, intitolato all’Immacolata Concezione, lo fa confrontare con la pagina conclusiva, quella che consente di fissare le une vicino alle altre cerimonie periodiche a usanze calendariali, feste ufficiali a costumanze sociali, processioni figurate a rappresentazioni allusive, cerimonie agrarie a rituali divinatori. Ci si imbatte così in santi minori e in figure di santità maggiori; in relazioni arcaiche con il piano del soprannaturale e in patronati cristiani, in espressioni devozionali e in culti mariani, che vestono la Madonna ora con gli abiti della mater dolorosa, ora con quelli di una mamma piccirille. Si penetra così, passo dopo passo, in un sistema organizzato e circolare di segni che rispecchia una vita primeva, scandita da atti iterati; contrappuntata da usanze neglette; attraversata da suoni e strumenti oggi relegati nel cantuccio degli spiriti antiquari o della filologia; segnata da segrete immagini di congiungimento e da metafore di fertilità; condensata da oggetti/simboli che agganciano i padri ai figli, i discendenti agli antenati nell’eterno gioco della vita/morte/rinascita. Ovviamente in questo orizzonte di genere non potevano mancare i protagonisti di quel mondo parallelo, gli animali, che hanno marcato, da comprimari, il contenuto di eventi reali e ideali, o contribuito ad identificare il patrimonio folclorico e leggendario della comunità che qui si riproduce. Fatalmente e quasi senza intenzione si scivola lievemente in un limbo di echi lontani che pescano a piene mani dal libro dell’infanzia o dei perimetri festivi. Così il gracile e tenerissimo pettirosso che patisce e si duole del Cristo in catene; la rondine snella e trillante che annuncia la primavera; il lupo irsuto e ladro di bambini che S. Domenico ammansisce; i cavalli disordinati e schiumanti della corsa dei berberi; l’elegante ed enigmatica gatta di Porta Pescara che guarda il mondo da una loggetta con la distante aristocraticità di una regina, accompagnano questo complesso, riflessivo racconto delle proprie radici, in cui l’uomo sembra in qualche modo ridimensionarsi nel confronto con quel rango più umile e dimesso che è la condizione animale. Ma c’è anche altro in queste dense pagine, in cui la tradizione colta si coniuga con la storia locale. Ci sono, per esempio, le persone vicine affettivamente all’Autore, o comunque a lui prossime, perché parte del suo paesaggio personale. Ci sono le cronache di una Chieti minore, vista dal basso, dalle sue radici, dai suoi piccoli/grandi personaggi. Sono i “dintorni” del titolo, ovvero quell’ampliamento dello sguardo che consente a Raffaele Fraticelli di aggiungere altre immagini, altri scenari, altri luoghi, altre tessere al suo edificio della memoria. E’ questo ulteriore, più intimo percorso che riaccende la luce sulle sonore, ardimentose rivalità de lu quarte de sopre e de lu quarte de sotte; che fa rivivere gli sguardi, le voci, i giochi de li bbardissce; che rispolvera la fatica, la rassegnazione o la felicità di antichi mestieri che mostra la sofferenza di vite guidate dal destino e private dell’esercizio dell’autodeterminazione, «come la storia di quel banditore ch’era nato per cantare, ma senza denari per il lungo tirocinio… S’era perduto a strillar di pesce o d’uova o di stoffe scadenti» (Melchiorre, Lu canestre, 1966). E’ sempre questo indagare più in profondità che apre uno spiraglio sugli spazi appartati e taciturni dei conventi femminili, dove aghi, fili e mani fatate creavano prodigi di ricami; che disegna l’immagine trasgressiva e romantica del vivere fuori dagli schemi, affidata (in questo caso) all’incedere spavaldo e alle vesti sgargianti e multicolori di una zingara arruffata. E’ sempre questo scandagliare nel cuore della città che rinnova il profilo di figure melanconiche, corrotte dalla vecchiaia o dal bisogno; che accarezza personaggi a tutto tondo, identificabili non dal nome o dal cognome, ma dal soprannome esibito in guida di blasone aristocratico; che ricostruisce eventi ordinari, eppure ogni volta nuovi, come l’arrivo della corriera che, nel raccogliere in piazza piccoli, vecchi, sfaticati e fèmmene si fa simbolo di speranza e di sogni non realizzati. Ma da intransigente collezionista qual è, Raffaele Fraticelli vuole assicurare la sopravvivenza anche agli odori sani degli ambienti che richiama alla memoria. E’ a quest’altezza che, guidati dal codice aromatico del cibo, si penetra l’articolato mondo della cucina abruzzese; lo spazio inimitabile, caldo, protetto, annerito dal fumo del focolare, odoroso del monotono rigore d’un regime alimentare forzatamente parsimonioso, che saltava solo in specifiche, periodiche occasioni in cui diventava timbrico e policromo. Con sapiente perizia il Nostro ne mette in versi l’articolata grammatica e insieme indugia sulle delizie della credenza, sui gesti lenti di mani virtuose che convertivano i singoli ingredienti in opulenti, saporosi piatti; sulla confezione di ricette che allietavano il palato e addolcivano la durezza della vita (Giannangeli, La cucine de mamme, 1978). Sono queste le pagine che introducono in un labirinto di messaggi olfattivi, ora freschi ora marcati; che disegnano una disciplina della tavola razionalmente dosata e didascalicamente pragmatica; che tratteggiano nitidamente le morbide tentazioni della frutta sciroppata o dei polposi aromatici ortaggi; che immergono nei gorghi caldi degli stracotti o nei tiepidi brodetti di mare; che si calano nel campo profumato di dolci parsimoniosi e croccanti, mai spregiudicati nella loro confezione; che riproducono, infine, quelle situazioni felici che miravano a festeggiare o a sedurre. Su questo intreccio di sapori e di odori, di alfabeti commestibili e di credenze stipate, di erbe e di legumi, di fragranti frittate e di ghiotte minestre, Raffaele Fraticelli mette punto al suo labirinto olfattivo, al suo universo di eventi, alla sua galleria di ritratti. Ma a chiudere il sipario su queste scenografie che appartengono alla commedia umana, chiama il suo alter ego: Zi Carminuccio, il travestimento che lo ha reso noto soprattutto al pubblico radiofonico abruzzese; il contrappunto ironico, lucidamente pessimista, locale solo per l’uso di un dialetto terrigeno, impuro, meticciato, ma – nei fatti – personaggio senza tempo. Anche in queste pagine questi non si esime dal criticare – come da copione del resto – i vizi e i tic di quelle realtà che privilegiano l’apparire sull’essere, le maschere sui volti, l’astuzia sull’onestà. Avverte infatti: «E’ vecchie la cianghette, di mill’anne. E, chicciappure chi l’avrà ’mmentate? Chi beve? Chi s’abbòtte? Chi cummanne? Chi corre? Chi sta còmete assettate?… E’ nu mistere. Nen z’è maje sapute. Fa gnè lu ragne: arraffe e s’annasconne; gnè lu rasole: taje e… s’arichiude. Ha-voje a dì ca va storte lu monne!… Attente a ’stu ’mbrastocchie, votafacce; … specie a chi te se mette sott’a ’mbracce!» Sono, dunque, agro-dolci questi Giorni di festa e dintorni. E non solo per quanto sentenzia – in finale di libro – Zi Carminuccio. Sono tali anche per altro: innanzitutto perché adombrano il rimpianto per stagioni perdute; poi perché allertano sulla circostanza che negare il senso del passato a favore di un «immediatismo che ignora tutto della tradizione» (Ferrarotti, Il ricordo e la temporalità, 1987) significa affidarsi ad una smemorata, inconsapevole, mutilante apatia; negarsi ad ogni possibile conoscenza di sé; adeguarsi ad un pensiero predatorio, riottoso a comprendere perché incapace di ascoltare. Raffaele Fraticelli che invece sa ascoltare e comprendere, accumulare richiami e fondere echi, ha composto sulla base di memorie ora autobiografiche ora biografiche ora collettive una piccola/grande storia amica della vita. Il suo «c’era una volta…» non ha, infatti, nulla di astratto o di distratto, perché poggia sulla riproduzione certosina e scrupolosa di vicende reali che, proprio in quanto tali, sanno ridestare – accanto al gusto per il passato – anche il piacere dell’immaginazione. Restituendo alla fantasia i suoi diritti, la coscienza fabulatrice di Raffaele Fraticelli si trasforma, così, anche in una fabbrica di sogni che non vogliono lasciarsi intimidire da divieti di transito. E’ questo un ulteriore, più profondo motivo che rende queste pagine gradevoli e intriganti, esattamente come intrigante e gradevole è il suo Autore, che sa indossare con elegante disinvoltura sia la maschera melanconica di Pierrot che le vesti festose di Arlecchino.
La trasgressione, tuttavia, dipende dalla circostanza che questo testo – compendio e riassunto di un divertissement durato circa cinquant’anni – è, almeno a mio avviso, molto di più che una raccolta poetica. E’ piuttosto la ricostruzione di un intero cosmo in miniatura, ora in ombra e taciturno, ma, fino a poco tempo fa incredibilmente cromatico e sonoro; di più, corposamente denso di orgoglio e di innocenza, di malizie e di pudori, di moralità e di solitudine, di devozione e di superstizione, di bugie e di verità. Uno spazio, dunque, fitto di voci e di rumori, di odori e di sapori, di volti e di maschere che l’Autore ha disegnato con i colori di una tavolozza tanto raffinata e penetrante da ridar vita anche ai paesaggi dell’anima, ai tempi interiori, alla carta dei simboli e dei sogni, allo sfondo dell’immaginario e degli umori inconfondibili di quell’ altrove, che è il mondo popolare.
SOMMARIO
NATALE
’Na lùcia nove, 23
Lu pressepie de la bon’àneme, 24
Novena di Natale – Antico canto degli zampognari, 29
Lu Natale mè, 31
Filastrocca degli animali al presepio, 32
La cene de la viggilie, 33
Zì Carminuccio al pranzo di Natale, 35
Caviciune di cice, 36
La linticchie nghe lu pane fritte, 38
Serenatelle, 40
GENNAIO
Venuta dei Magi, 43
Le farchie, 49
Lu sanguenate, 51
FEBBRAIO
Lu Sante cannarute, 57
Lu taralle de Sande Biasce, 59
CARNEVALE
Filastrocca dell’orchestrina di Carnevale, 64
Ravïule de recotte, 65
La cicirchiate, 67
MARZO
Mimose (festa della donna), 71
Lu prime fiore, 72
San Giuseppe lavoratore – Gesù Bambino falegname, 73
Le zèppele de San Giuseppe, 76
PRIMAVERA
La primavere (canzone), 81
E’ primavere, li vide? li sinte?, 82
’N’ âtra primavere, 83
Tempe di primavere, 84
SETTIMANA SANTA
Lu tricche-tracche, 87
Lu ’rane di li Sippùlecre, 89
Lu rennelone, 91
Pecchè lu pattarrossce?, 92
Vinirdì Ssante, 94
Viernes Santo, 96
Le parole de lu sole, 99
DOLCI TRADIZIONALI DELLA PASQUA
Tarallucce de mezza Quarèseme, 105
Pupe e cavalle de Pasque, 107
Lu fiadone, 109
APRILE
Vache di live, 113
Briciole di saggezza, 114
MAGGIO
Lu lópe, 119
La Madonna di Carpineto – Le verginelle, 133
La tòmbele ’m Piazza ’ranne, 137
Lu sonne di li cavallucce, 138
Lu pallone, 139
La mamme de lu Bannarese, 141
FESTA DELLA MAMMA
Sonne nghe mamme, 145
Mamme: li bindìzziune, 148
Madre: le benedizioni, 149
Voce de mamme, 150
Mamme, 151
Consolazione, 152
PENTECOSTE
Discesa dello Spirito Santo, 158
GIUGNO
Predicazione di Giovanni Battista, 163
Lu San Giuvanne (canzone), 165
Le cumburzïone, 166
RICORDANDO LA MAESTRA
Scià bendette, maestre, 171
Pinziere a la maestre, 171
Quala rengumbenze?, 172
LUGLIO
Madonna della Mazza, 176
Li Saracine, 179
L’inno dell’amore, 190
San Camille, 193
San Camillo, 194
Li palmintiere, 195
AGOSTO
Lu prime d’ahoste, 199
Povere minature, 200
Chiusure di staggione, 201
SETTEMBRE
La Madonne de lu Sudore, 205
OTTOBRE
San Francesche, 211
Prighiere, 215
Preghiera, 216
Gran Regina (inno sacro), 217
NOVEMBRE
FESTA DI TUTTI I SANTI
Le beatitudini, 221
Fronne, 223
FESTA DI GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO
Lu crucifisse, 224
DICEMBRE
LA MADONNA
Madunnella de la grotte, 229
La Madonna degli Angeli, 230
Li fije sperze, 232
Madonna del Castello (inno sacro), 233
Santa Marije a mare, 234
MOMENTI DELLO SPIRITO
Parole andiche, 239
La chiesa nove, 241
Fumone, 243
La Badije, 245
Lame de sole, 247
Jem’a sscì ’n gondre, 248
Matutine, 249
La spére, 249
Vintiquattr’ore, 250
Nu mumente, 251
Campane a martelle, 251
SEGNI DEL NOSTRO TEMPO
DISPONIBILITA’ ALLA SPERANZA
Glasnost, 255
Ùmmene dentre, 258
Uomini dentro, 259
Spére de speranze, 260
Lampada di speranza, 261
Linzùle de parole, 262
Lenzuoli di parole, 263
L’ûtema spére, 264
L’ultìma lampada, 265
Palme di live, 266
VOCE DE POPELE
MESTIERI – VOCI – GIUOCHI FANCIULLESCHI
– SOPRANNOMI – PERSONAGGI
Note sugli antichi quartieri di Chieti, 271
De qualu quarte si? (Glossarietto), 272
Alcuni soprannomi del quartiere della Civitella, 279
Lu rrutine, 280
Lu bandetore, 281
Lu carvunare, 283
La hatte, 287
Lu lupenare, 291
Mastre Mecchele, 295
Mastre Peppe fatijatore, 297
Timpe di picciunare, 299
Le fèmmene di Chiete, 301
Lu surrise de don Renate, 303
Li scénnele, 305
CANTI DELLA NOSTRA GENTE
Terra nostre, 309
Allegoria della vita, 310
Natura morta. Omaggio a Zurbaràn, 312
Ricordo del Prof. Verlengia, 315
Parlature, 316
Maja, 317
Muntagna mè, 318
Chi seme nu’?, 319
Speranze, 320
La zenghere, 322
’Na desgrazie, 323
Curagge, 324
Fundane che cole, 324
Ciàvele de neve, 325
Chi sone lu viuline?, 326
Lu migrante, 328
Lu mezzone, 329
L’ûtema serenate, 330
Lu campanone, 331
N’âtra rannilijate, 332
Un’altra grandinata, 333
Calanche, 334
La giacchette di Ddije, 335
La cuméte, 336
Chi vò sumendà?, 337
Pupa despettose (canzone), 339
Lu ddu’ bbotte, e tu?, 340
La riggìne, 341
Savetarelle ‘ndrecce e mbruje (canzone), 342
La curriere, 343
Segne de nozze, 344
Pe’ la marrocche, 345
La prima cantarine, 347
La partenze, 349
Nu retaje di ciele, 351
Lu nide, 352
Pace e sonne, 353
Lu sonne, 354
Core de nonne, 356
Tre sturnille pe’ la cìtele, 357
Nozze d’argente, 358
La vite, 359
LE PROVVISTE
Le checuccelle sott’oje, 365
Le mulignane a li baràttele, 367
Li pipidìnie arroste, 370
Pipìdinie e pummadore a le bbutteje, 372
Le precóche cunzervate, 375
LA CUCINE DE MAMME
Alcuni modi di dire, 381
La ’nzalatelle de pummadore, 382
Fave e biete, 384
Li tìnere de checocce, 386
Lu purè de patane, 389
Pòlipi ’n purgatorie e patane nuvelle, 391
La pizze de baccalane, 393
Seppie aripiene, 395
Lu brudette de pesce, 397
Lu spizzatine, 399
Lu fèghete nghe la cepolle, 401
Lu lazzarette, 403
UN PRANZETTO IN VERSI
Scarole nghe caçe e ove sbattute, 409
Sfurmate de checuccelle, 411
Carciòfele nghe la bruschette, 413
La frettata maretate, 415
Lu rolle de carne di vitelle, 417
ZJ’ CARMINUCCIO
Stornellata, 425
La fìja mè, 426
La cummare: “lassa fa Ddije”, 427
Lu chiove ’mbrìjache, 428
La cianghette, 429
E … quase me cumbesse …, 431