
Raccolta di poesie dialettali abruzzesi
Dedica: A mia moglie
Anno di pubblicazione: 1966 – Editrice Arte Stampa
PREFAZIONE
Pasquale Scarpitti
« Aspitte n’âtru ccune » . . . « sta p’ariscì lu tempe bbone ».
Raffaele Fraticelli è tutto qui, in questi due versi, con il suo ottimismo, la sua speranza di poeta e di uomo, con il suo messaggio d’amore: qualità che non gli derivano tanto da particolare predisposizione, ma da una innata fiducia nei valori della vita, intesi in un arco di tempo senza limiti. A leggere i suoi versi è, per ciò, come riscoprire l’essenza delle cose, il significato di sentimenti che i tempi moderni hanno mortficato o disconoscono, il valore di un tempo passato al quale il poeta guarda, e noi con lui, senza più tristezza, con fiducia consapevole, con certezza:
« sta p’ariscì lu tempe bbone ».
Fraticelli è così, nella vita come nella poesia. La sua è coerenza di uomo e di poeta. Come uomo è gioviale, paziente, buono, altruista; ama il prossimo con profonda vena di ottimismo, ha fiducia nei valori umani; è pronto a stendere la mano, a incoraggiare, con umiltà. Come poeta è coerente con se stesso. Non cerca l’evasione né il mero esercizio; guarda la realtà nelle sue reali dimensioni, ne sa cogliere il significato più profondo e antico con la saggezza di un uomo vissuto cento e cento anni.
E’ così che egli si dimostra abruzzese integro, in questo suo saper scoprire nel mondo che lo circonda, un linguaggio che appartiene alla parte più antica e genuina della sua stirpe, che è linguaggio universale dell’uomo. E’ abruzzese che ama la sua terra negli aspetti più autentici del suo popolo (e l’abruzzese non è gente pessimista, sconsolata, amara, è popolo gentile che la sofferenza ha fortificato ed elevato), e da abruzzese vero, Fraticelli sa trovare nella vita la grazia. Le sue poesie sono come certe incantate stampe; scritte chissà quando, in tempi immemorabili, ma sempre valide come stampe antiche di un Abruzzo immutato. Le sue poesie sono soprattutto qualcosa di più: non concedono nulla ai facili modi del vernacolo, hanno sempre qualcosa da dire, trasfigurano la realtà affidando ai versi un messaggio antico, il messaggio del dolore umano reso fecondo dalla speranza.
Potrebbe farlo: il vernacolo porta al pittoresco, alla facile ironia, fa restare in superficie, condiziona il poeta a sentimenti minuti, paesani, spinge a facilità espressive che vincolano poi i contenuti; potrebbe farlo nell’abbondanza della poesia dialettale: un libro in più, altre poesie senza segno; ma Fraticelli sa che giorno per giorno la vita riserva una lezione, che protagonista della vita rimane l’uomo, che l’uomo per poter vivere ha bisogno di essere consapevole della sua condizione. E allora lo aiuta a prendere coscienza di se stesso con l’amore perchè sa che solo nell’amore è il superamento del dolore dell’uomo; allora il suo canto si fa gioioso perchè sa che solo nella speranza l’amore diventa letizia e nella letizia il dolore è accettabile come bene.
« Sol’a ccuscì la terre a ddò s’è piante / duvente benedette: terra sante».
Così, nella consapevolezza dei valori umani, dei valori della vita, in tutte le sue espressioni. E ad essi Fraticelli si avvicina con candore e ingenuità, con lo stupore di una continua scoperta. Le sue emozioni sono così vere che la sua poesia si fa preghiera, si fa canto. E se un dramma lo sfiora è quando il cuore « sta chiuse e n’n pò vulà » perchè allora diventa pesante vivere, difficile, e il poeta avverte la fatica di affidare ai suoi versi un messaggio:
« Ma quanta c-i-ha vulute a aprì ’stu core;
nu ggire di cent’anne ha vûta fà,
pi’ ddice ca lu bbene esiste ancore:
’na cose di nijente ce le dà!. »
INTRODUZIONE
Prof. Virgilio Melchiorre
Sono trascorsi molti anni da Cante lu core ( 1951 ), la prima raccolta di versi dialettali di Fraticelli. Ed eccoci a Lu canestre, che già nel titolo dice della nuova raccolta con più discrezione, senza prediligere la sola vita degli affetti e senza retorica, abbracciando voci diverse e più profonde esperienze.
Del resto, in questi ultimi tempi s’è fatto anche più fitto e molteplice il dialogo del poeta con la sua gente: in taluni casi dialogo d’occasione o di feste ufficiali – e non sono i momenti migliori -, ma più spesso incontro con la gente antica che ancora dà senso alla terra d’Abruzzo, gente che se ne va e che il poeta rammemora o tramanda e intende in quella sua umanità tutta celata in apparenze dimesse, talora sin buffe e amaramente ridanciane. Non è vero, d’altra parte, che quando l’uomo si veste a buffone, solo allora si fa a se stesso spettacolo e cerca pudicamente nella profondità dei propri significati? Ce lo ricordava recentemente il Palazzeschi con le sue scritture sul « buffo integrale ».
Ed ecco, un po’ comici, un po’ patetici i vecchi personaggi della memoria paesana: il banditore, il lupinaro, l’arrotino, il carbonaio e persino quel vecchio gatto sull’antica loggia, ove qualcuno vive ancora di poco e si contenta a sera di riguardare in cielo,
« lu core bbone p’ajutà la ggente, / la logge pe’ vvedè la luna piene». Forse costoro sono scomparsi del tutto, ma basta il batter lento sul selciato, un rumor di zoccoli stanchi e la memoria ritrova il semplice mercato o la piazza animata alla buona e l’ultimo venditore di lupini:
« L’ûteme lupenare che se sente,
ch’arevè puntüale ogne mercate,
piazze la tine addò passe la ggente
s’assètte e strille: « lupina salate! »
E l’arrotino, forse anche lui fra gli ultimi, col suo carrettino completo, con la mola a pedale che gira e intanto misura l’allegra « ciufelate », perchè alla povertà dell’operaio ogni lama da rifare è motivo di vita: « pe’ hèsse è feste a ogne rrutature ».
Non sono semplici bozzetti, questi di Fraticelli, ma come centri di un universo morente, un universo difficile da vivere e spesso tragico come la storia di quel banditore, ch’era nato per cantare, ma senza denari per il lungo tirocinio, e così s’era perduto a strillar di pesce o d’uova o di stoffe scadenti. Ed ecco la malinconia senza rancore, ma anche la sofferenza d’una vita mancata o d’una povertà che gli uomini non seppero vincere:
« Nghi l’usse rutte e la trombe ammaccate
m’afìde sole a dirve « bbona sere »,
a qquande pije l’ùterna calate
e cianga-cianghe chiude la… carriere ».
Eppure quest’universo aveva la sua saggezza e la sua tranquilla felicità. La gente che s’affollava attorno al lupinaro ne scandiva i significati sgusciando ad uno ad uno e lentamente i semplici frutti salati e sconfinava in cielo, nella sera di festa, fra l’a-solo della banda e gli ingenui fuochi dell’antico artificio.
« Lu lupenare, l’ître bangarelle,
gazzose, le nucelle ‘entr’a li buste,
la bande, li pallune, lu castelle … »
Ora, bastan le scintille dell’arrotino e le piccole luci si trasfigurano nella grande luminaria:
« Arrote e mette foche a nu castelle:
lùcceche e sgrizze le stellette attorne,
cuntente mentre affile nu curtelle,
cuntente ch’ha ’ffelate n’àtru jorne!. »
Basta, dunque, il pane quotidiano e un piccolo pertugio: il senso delle cose e l’immensità dell’essere possono essere percorsi in uno spazio che è pur tanto angusto.
Questa mi pare l’antica lezione e come l’antico sale cui ritorna Fraticelli. Ed è anche la sua più autentica moralità, che qui trova una concreta evidenza e si raccoglie alle origini, nell’attento riguardo dell’umana condizione. Non così altrove, ove il poeta passa la mano al moralista e s’accontenta di porre in versi generiche sentenze o astratti rimpianti: è il caso di Chi seme nu’ con la scoperta sufficienza delle buone tradizioni, o di Sonne nghe mamme con quei cedimenti ad una mitografia sentimentale dell’amore materno, o de Lu gemellagge con i concettosi precetti per un’occasione un pò politica e un pò turistica. Ma torniamo a quel che interessa, a quelle memorie che richiamano e bruciano nella semplicità d’un passato già favoloso. Fraticelli cerca nell’infanzia lontana e ritrova il gioco emblematico della giostra ove la fantasia per poco s’accendeva sui cavalli di cartapesta o sul rudimentale ondeggiare di finte barchette, ove persino t’incontravi con un angelo trombettiere o con la musica d’un organetto sconquassato.
« N’n te sacc-i-addìce quanta mi piacéve
’jì sopr’a lu cavalle e lu gerelle,
dentr’a la barche che m’annazzechéve;
quande partè sunè la campanelle.
E tutte m’ha remaste dentr’a ’m bette:
le bandierelle, li strisce culurate,
chell’àngele che ssone la trumbette,
chell’urganette mezze squatrellate… ».
Ed ecco mille figure che ritornano da quel mondo di povera, paesana e pur dolente felicità. Ecco la lunga sequenza dell’antico presepe, che il padre scomparso costruiva per Raffaele e gli altri fratelli, con il piccolo ponte e le casette, il fiume, le montagne e la grotta del Bambinello appena a ridosso della fredda neve. Poi, fra tanta festa, erano venuti i sorci a mangiarsi quella ghiotta neve di farina, ma papà non l’aveva voluto dire e s’era inventato d’un tal miracolo, perchè il Bambino non avesse più tanto gelo e tanto freddo. Come mai questa buona menzogna? Il poeta non lo dice, ma nel suo sguardo e nella sua gratitudine sentiamo che non era bene romper l’incanto e scoprire innanzi tempo la vita crudele che rosicchia ai poveri o la povertà che non ha altra farina per altra candida neve.
Così, dunque, ritorna un mondo di fatiche segrete, di stenti dignitosi, ma non accettati, ove i personaggi dell’antica tradizione portano ancora una misura di vita ed una semplice gioia. Questo, però, è solo memoria e memoria già corrotta nella patina uniforme dei nuovi modelli industriali: « se ce se penze ce fa rite: / cresce le nuvetà, ammanche la vite ». E, così, se ne vanno i ricordi con l’ultimo luccichio della mola ambulante o con gli ultimi colpi dell’allegro calderaro o con la stupita ignoranza di Zì Carminuccio.
Il cammino del poeta è, dunque, volto al passato, «gnè nu rellogge che camine arrete… ». Dobbiamo pensare ad un sentimento di stanca e crepuscolare nostalgia? Il poeta è tale se dice il possibile. E, se pur vive di memoria, la sua dev’essere memoria del futuro, riguardo all’indietro per un senso che è da riprendere ancora ha da essere: parola che, dunque, si sporge dal passato per indicare un avvenire assoluto, non per chiudersi nella sterilità del ricordo o della pura ripetizione. Di Fraticelli abbiamo già detto: talora il ricordo può essere compiacenza che s’arresta, ma più spesso è memoria che perpetua e tramanda. Né l’insistenza sugli ultimi personaggi o sulla gente che scompare deve essere fraintesa. Non dimentichiamo che qui è luogo di poesia dialettale e che questa si muove, ora, al futuro come all’insidia di una uguale civiltà, ad un cadere delle distinzioni regionali. Molte cose, molte parole s’avviano, dunque, a morire. E, però, guai se tutto cadesse: ciò che viene non sarà mai buono se la memoria delle civiltà singolari non v’entri a rivivere. Ed ecco l’umile dono del poeta dialettale che raccoglie antiche figure ed essenziali saggezze, e le tramanda, le strappa all’oblio perchè nulla sia perduto e tutto sia e si fecondi nell’unità dei tempi. Se, dunque, anche la sua memoria dev’essere per il futuro è giusto che qui l’accento sia tenuto al passato. L’uomo che con fatica e coraggio va emigrando verso il futuro potrà andarsene così con più sicura saggezza: « … ni mi piagnéte appresse, / la campane che bocche nen zunesse; / facéteme scappà prime di jorne ». Ouesta segreta fedeltà, come si disse, è certo pericolosa, ma è l’unica via, l’ultima che qui sia possibile. E che Fraticelli, nei suoi versi migliori, la percorra con umiltà, con fedele convinzione, è chiaro a chi cerchi e respiri nel suo buon canestro.
INDICE
PENSIERI A CHI NON C’È PIU’
Lu Pressepie de’ la bon’àneme, 19
Core de mamme, 27
La prima segge, 33
’Na vocce pe’ la lume, 35
’Na Stella nove, 37
La terra sante, 39
ZI’ CARMINUCCIO
La terre, 43
Lu cumbare, 47
Lu corne, 51
Lu vecchie e le nuvetà, 57
La pignate, 61
CORE PAZZIJARELLE
Savetarelle ndrecce e mbruje, 65
La riggine, 67
La prima cantarine, 69
Pe’ la marrocche!, 71
CORE CHE SUSPIRE
Lu canestre, 75
Lu murtale, 77
Lu despette, 79
Lu pajare, 81
IMMAGINI, VOCI, PERSONAGGI
Chi seme nu, 85
Pace e sonne, 87
Lu sonne di li cavallucce, 89
Voce de mamme, 91
Sonne nghe mamme, 93
La curriere, 99
Lu rennelone, 101
Lu migrante, 103
Nu mumente, 105
E’ primavere, li vide, li sinte?, 107
Serata nove, 109
Lu mezzane, 111
Lu pallone, 113
L’ûtema serenate, 115
Lu bandetore, 117
Lu lupenare, 119
Lu rrutine, 121
Lu carvunare, 123
La hàtte, 129
La muntura nove, 135
Lu gemellagge, 141