Ho detto “versioni”, ma la parola è senza dubbio inappropriata. Come già ebbe modo di notare Mario Pomilio, nella sua prefazione a Parole de Vangéle (1976), Fraticelli non si era dedicato a una semplice versificazione dialettale dei passi evangelici. Si era bensì ritagliato un suo spazio creativo, come se quelle parole fossero state pensate la prima volta con i toni, con gli umori, con le intraducibili cadenze del linguaggio popolare d’Abruzzo. E però era anche naturale che l’obbedienza al testo evangelico andava pur rispettata: l’invenzione poetica doveva imporsi un limite ed essere, rispetto ai testi originari, solo un’eco discreta di ritorni interiori, di sentimenti sempre ben disposti nell’ascolto di quelle parole.
Questo incrocio, mirabile, d’invenzione e fedeltà torna a ripetersi nel racconto che ora va meditando sulle parole della Croce e su quelle del «Resurrexit». Ma c’è di più: le parole della Croce e quelle che annunziano il Risorto stanno all’inizio, così come le recita la Vulgata latina, quasi ad esergo dei diversi canti poetici. Sono dunque scandite come per dischiudere spazi di vita interiore o per volgersi alle risonanze dell’animo devoto: luoghi di memorie e di sofferenze o di speranze ad un tempo intime e corali.
L’invenzione del poeta è così più libera e dunque può farsi per se stessa più attenta alle pieghe o alle profondità dei sentimenti popolari. Non è, però, libertà che si svincoli dalla storia o che stia nel recinto chiuso di un sentire solitario. La sua ricerca, nei tratti evocati dell’animo e persino nei modi del lessico, è piuttosto un attraversamento trasparente d’antiche movenze, di modi sempre ritornanti nel parlare della gente. Ed è, prima ancora, ricerca che si staglia nella memoria d’un antico corale, fatto di stenti e di fatiche, di migrazioni e di lamenti, così com’era l’Abruzzo che aveva visto bambino il nostro poeta:
Oh, se guardéme arrete, a li staggiune,
vedéme a morre li ggente di jére
ammascechènne làcreme e sijùzze,
stracciate e mute p’abbuscà’ nu tozze;
li Sante puvirille, li migrante,
fatijature patite e pistate
canzune fatte sole di laminte…
Come avrebbe potuto, questa gente umile e appassionata, raccontarsi le vicende narrate nei Vangeli? Ecco, ad esempio, in un vissuto che echeggia tumulti fra vicoli e quartieri, la confessione della “femmina” peccatrice: la “rinnegata” che, nel suo intimo, ha ricevuto la compassione del Cristo.
Jé so’ la femmene, la rennehàte,
A-dàva murì ’ccise di pretate,
ma Giasù Criste a mmè m’ha cumpatìte.
E, ancora, si veda come la consegna data dalla croce a Giovanni e Maria (Gv 19,26-27: «Ecco tua madre!»… «Donna, ecco tuo figlio!») viene riletta con i toni popolari della prossimità tenera e devota:
… pije Giuvanne, falle sta nghe ttè…
Pije ’sta mamme, tìttele vicine,
è mamma sante, te l’areccummanne!…
È sullo sfondo di quest’intimità che poi si staglia tanto più vivo il dolore della croce e della sua solitudine. Nel vangelo di Matteo e quello di Marco risuona il grido del Sl 22: «Dio mio. Dio mio perché mi hai abbandonato?». Fraticelli avverte che questo grido raccoglie in sé la storia di tutte le solitudini e ne avverte l’eco angosciante in mezzo alla gente che non vede il dolore del passante, che resta indifferente al vuoto della sua anima, che non gli apre l’uscio quando batte alla porta in cerca d’aiuto. Vien da pensare al 5/41, 10: «Anche il mio intimo amico, quello in cui io nutrivo fiducia, quello che mangiava il mio stesso pane, ha alzato il calcagno contro di me», o al Sl 88. 9: «Hai allontanato da me i miei conoscenti, mi hai reso per loro un oggetto d’orrore. Sono rinchiuso, senza via di scampo». Fraticelli vi rilegge lo smarrimento dell’uomo contemporaneo, sperduto e straniero fra la gente che pur dovrebbe conoscerlo:
Pése, è lu vere, a essere scurdate:
a camenà’ abberrutate di ggente,
’mmezz’a ’na folle…piene di nijente.
Ma chi te vede? Ma chi se n’addóne?
Jé tòzzele a la porte e chiame, e spére…
Nisciune ahàpre. Séme furastiere.
Di più, Fraticelli sembra pensare all’irrisione dei sacerdoti sotto la croce: «Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso» (Mc 15, 31, Mt 27, 42; Lc 23, 35). Ma in questa irrisione vi rilegge il silenzio dei guariti, dei salvati che non sono lì a testimoniare e che ben potrebbero togliere la parola di bocca ai sacerdoti e ai capi del popolo: dove sono i Lazzaro, i sordomuti e i ciechi che Gesù aveva ridato alla vita?
’Ddò sta li sordomute, li cecate,
li gente areguarìte, li libbrùse;
mijare de persone ch’ha sfamate;
Lazzare morte che s’ha ribbivìte?!
È singolare che le parole che dicono dello straniero fra la sua gente (perché non pensare a Gv 1, 11?) sono poste sulle labbra di Maria. Sono per questo parole che escono dal racconto di una storia qualunque. Di Maria leggiamo in un verso che è madre dell’intera storia, di tutti i tempi dell’uomo: «jé so’ mamme: mamme senza tempe». Per questo il lamento della solitudine è ora il lamento di una contraddizione tragica che oscura ogni senso: la verità sembra invischiata fra i cenci e le foglie secche del tempo, la sua scomparsa si muta nell’abisso della miseria e nelle infinite ferite dell’angoscia:
La Verità, ’m mezz’a le fronne sicche
s’ammùcchie nghi li cinge, è capistate.
Attorne ci sta sole stelettate,
mi stregne nu subbisse di miserie…
E però è proprio in questa contraddizione che sta celato il seme della salvezza. Fraticelli Io ripete più volte, facendo eco all’icona evangelica del seme. Si ricordi il versetto di Gv 12,24: «se il grano di frumento, caduto per terra, non muore, resta esso solo. Ma se muore, porta molto frutto». Fraticelli traduce questa sentenza con i forti sapori della sapienza contadina ed è ancora a Maria che così fa dire:
Lu vacarelle che casche e ne’ mmore
aremane sole, se perde a lu vente …
Se mmóre, immeçe, e scumparìsce in tutte,
allore porte a ccape fiure e frutte!
E così l’immagine della morte del Signore è tanto orribile, quanto ricolma di speranza: la terra lo inghiotte come inghiotte la semenza, ma dalla terra quel chicco disfatto tornerà a bussare nella storia dell’uomo:
La terre s’ajjuttìsce la sumente,
ma nen ze spreche, aretòzzele dumane.
La semente che torna a bussare (aretòzzele!) non è che l’ardita figura di un’antica tradizione che nella vecchia liturgia irrompeva a mezzogiorno col suono delle campane. Con fine metafora popolare si diceva allora che le campane erano finalmente “sciolte” dal loro silenzio penitenziale:
La vite arecumìnge, è na fumane.
E Pasque s’arisciòje le campane!
Dicevo all’inizio di parole che ripetono gli umori e i sentimenti della povera gente, quella che in passato cantava e soffriva fra vicoli e quartieri. Ma merito di questa riscrittura della Passione è di aver colto il senso riposto, universale di quei sentimenti. Fraticelli, come già notavo, li coglieva nella trama di una storia secolare. Noterei infine che quei sentimenti li fa risuonare ad un tempo sullo sfondo di un destino che sta sempre fra cielo e terra, oltre la stessa vicenda dell’umano. Non è un caso che questo racconto della Passione inizi e concluda, fra monti e mare, nel respiro del vento (il vento dello Spirito?). All’inizio leggiamo infatti:
Parole sante, ’ntissùte de vente,
scritte sopr’a li righe de lu tempe,
’mbastate de marine e de muntagne,
duvente testimònie de la terre.
E, alla fine, mentre si torna a dire della vanità dei giorni:
E notte, e jorne e tempe, nen è niente.
Lu monne gire, si fruve, se squaje,
Ecco che la parola del Risorto torna a rianimare con la sua compagnia la sequenza dei tempi e delle stagioni:
E, sotte a ventelare, a neve, a sole,
stenghe vicine a vvù, ve l’assicure.
Dalla terra contadina può dunque levarsi il testimone dello Spirito che, come fa il vento, soffia da lontano.