
Liriche per la commemorazione di Gabriele D’Annunzio nel cinquantenario della morte
Dedica: Ai miei nipoti
Anno di pubblicazione: 1988 – Amm.ne Prov.le di Chieti – Comune di Chieti – Assoc. Ital. Cultura classica – Edizioni Sudioluce – Arti grafiche Garibaldi
PREFAZIONE
Dott. Bianca De Luca, Direttrice della Pinacoteca
Dopo i lusinghieri successi riportati con le conferenze primaverili, per la celebrazione del cinquantenario dannunziano, la Pinacoteca “C. Barbella” di Chieti organizza un secondo incontro autunnale.
Questo nuovo appuntamento, per la commemorazione di Gabriele D’Annunzio a cinquant’anni dalla morte, viene suggerito da un lavoro di Raffaele Fraticelli.
Il poeta teatino ha raccolto un saggio di liriche in dialetto dal titolo: “Tra lume e lustre – Penombra nel cenacolo dannunziano”. In queste pagine si vedono scorrere – in carrellata fantastica – i fotogrammi “minori” dei personaggi del conventino francavillese.
Il lavoro si può ripartire in tre momenti:
– la continuazione nel tempo della nostra parlata, con immagini e voci contemporanee, che descrivono l’animo e il paesaggio d’Abruzzo;
– la trasposizione in versi di alcuni capolavori che sono custoditi nella nostra Pinacoteca;
– il contributo vivo ed appassionato a Gabriele D’Annunzio, attraverso una rilettura di alcune sue pagine di poesia.
La pubblicazione esce col patrocinio dell’Amministrazione Provinciale di Chieti, del Comune di Chieti e l’Associazione Italiana di Cultura Classica Sezione di Chieti, per ricordare le celebrazioni dannunziane.
Oltre alle composizioni di Fraticelli, sono riportate, in ordine cronologico, le notizie sugli oratori e sugli artisti che hanno animato le manifestazioni nei locali della Pinacoteca.
Le pagine del volume sono state corredate con la riproduzione di alcune opere che si conservano nel nostro Istituto, con l’intento di stabilire una continuità di dialogo – attraverso il veicolo del dialetto – tra i cantori di ieri e le nuove generazioni.
Questa ricerca di rapporti, di promozione e di divulgazione, è stata alla base della iniziativa.
Partendo quindi dalle giornate dannunziane, la Pinacoteca intende riproporre lo studio della cultura locale, sulla rimeditazione delle opere dei padri.
Grati a quanti hanno contribuito alla riuscita di queste manifestazioni, riconfermiamo la nostra disponibilità per ulteriori incontri di ricerca e di arte.
PRESENTAZIONE
Prof. Ermanno Circeo
Raffaele Fraticelli, sicuramente tra le voci più autentiche e schiette della poesia dialettale abruzzese, conferma le sue qualità anche in quest’ultima sua opera, significativamente intitolata Tra lume e lustre, edita a cura della Pinacoteca “C. Barbella” di Chieti che con sobrietà e dignità si è voluta inserire tra gli operatori culturali non solo di Chieti, ma dell’Abruzzo, onorando, con manifestazioni appropriate, G. d’Annunzio nel cinquantenario della morte.
A tale evento si è ispirato il nostro Fraticelli con la silloge presente, che vuole essere una rivisitazione in sordina o, come chiarisce il sottotitolo, in “penombra”, del Convento michettiano di Francavilla al Mare, dove tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso si formò intorno a F. P. Michetti, il “cenobiarca”, come lo definisce d’Annunzio nella dedica del Trionfo della morte,
il famoso cenacolo, di cui fecero parte, oltre al pittore di Tocco e a d’Annunzio, F. P. Tosti, C.
Barbella e saltuariamente E. Scarfoglio e M. Serao. Una schiera eletta di letterati e artisti che hanno dato lustro non solo all’Abruzzo, ma all’Italia e all’Europa, con la forza delle loro creazioni nei più diversi campi della cultura, dalla poesia alla narrativa, alla pittura, alla scultura, alla musica.
Dunque, un cammino à rebours, quello di Fraticelli, una “ricerca del tempo perduto”, per ricrearne l’incanto, risuscitarne i fantasmi, ravvivarne i colori, e quasi riascoltarne voci, sospiri e canti, come “quande da lu ciardine e li balcune/se sberrutéve tutte lu cirrije”. E tutto ciò grazie a un dialetto non convenzionale, vale a dire non artificiosamente rifatto su modelli linguistici colti, ma vivo e pregnante, come nell’esempio testé riferito, che attinge al tessuto demotico della nostra gente, capace di esprimere con la sua “parlature” “lu fiate calle/dell’àneme”, “resate e piante”, di rappresentare plasticamente “quanta mane/s’aggrappe/a le piegature de ’ssu cante”, “Nu cante nove” da trasmettere alle generazioni più giovani perché continuino una tradizione poetica nella quale si raccoglie e condensa tutta la filosofia di un popolo. Che trova esplicitazione eloquente in due liriche, l’autobiografica “Raffaele” e “Lu sonne”, ispirate l’una dal Michetti di “Prima nidiata”, l’altra da uno dei capolavori del Barbella, “Onomastico del nonno”, del 1884. E il poeta, in entrambi i casi, bene aderendo ai modelli, ci rende l’incanto e finanche le vibrazioni umane che da essi promanano.
Dal tessuto etno-antropologico della nostra regione, nel solco di una tradizione non obliterata e nella scia ancora di Michetti e Barbella, che per primi hanno dato volto e anima a personaggi anonimi, ma altamente rappresentativi di un milieu di miserie e di sofferenze, si collocano “La zènghere”, “Lu migrante”, “Segne de nozze”, calate in un “piccolo mondo antico” mai abbastanza rimpianto, e trovano in “Dimme!”, ispirata da una scultura d’intensa forza espressiva del Barbella, dallo stesso titolo, il loro suggello.
Non solo l‘incipit (“‘Na mamme appresse, nghi li fusse ’mbronte,/ scavàte da li chiuve e li pinziere,/ vanne a la stessa strade de la fonte …” ecc.), ma tutto il componimento, in agili quartine, rende con la stessa efficacia il dramma di una madre che vorrebbe alleviare le pene della figlia che “guarde luntane”, quasi presaga di un destino che non può mutare.
A sé sta, poi, “Vinirdì Ssante” (suggerita da una tela del Michetti) che ritrae un dialogo assai vivace tra una madre e il figlioletto, i quali assistono alla processione (quella di Chieti, verosimilmente, tra le più antiche e originali della regione), seguendone partecipi momenti e personaggi che si susseguono secondo scenari d’una iconografia uguale e diversa, lungo l’arco degli anni, sempre di una forte carica emotiva.
Non poteva mancare in tale contesto, evocativo e descrittivo insieme, la nota di colore (“Lu prime fiore”, “Giugne nghe ttè”) che prelude all’inserto idillico-elegiaco di “Pace e sonne”, dove gli elementi della natura sono riassorbiti, pascolianamente, si direbbe, nel quadro di un interno familiare discreto e toccante, tutto godibile nella sua sobrietà.
Ma veniamo alla sezione dannunziana del volumetto; si apre con una immaginaria apostrofe di d’Annunzio a Michetti esaltante la famosissima tela della “Figlia di Iorio”, “fatte de resate e de canzune,/ speranze annascunnate, de veléne,/ di jerve ammatassate a li tippune” … , la quale, a rimirarla, “scumbine, scave l’alme, le scaténe” … , e “Chi ce se ferme ’mbacce e l’arimire/ sente le prete andiche a rifìatà”.
In questo transfert, peraltro credibile, Fraticelli ha tentato un approccio critico persuasivo al capolavoro michettiano, di cui ha saputo cogliere con una lettura attenta e suggestiva non solo la visione d’insieme, ma i particolari, le connotazioni dei singoli personaggi, in primo luogo della protagonista.
Nell’omaggio a d’Annunzio Fraticelli ha voluto inserire anche alcuni saggi di sue traduzioni in dialetto abruzzese da testi dannunziani e precisamente, dalla scena V del I atto della Figlia di Iorio, il monologo di Aligi che chiede perdono a Dio, dopo aver visto l’Angelo muto, per aver osato levare la mazza sul capo di Mila innocente. Una traduzione completa della tragedia nel nostro dialetto ce l’ha data, da par suo, C. De Titta ed ora, finalmente, si può leggere nella bella edizione apparsa, nel maggio di quest’anno, a cura del Centro studi dannunziani di Pescara. Direi che Fraticelli sia riuscito in pieno a restituirci l’atmosfera che avvolge la scena, pur dilatando talora il testo dannunziano per adeguarlo alle esigenze del dialetto, come in queste sequenze:
“Milù, surella nove, scià-laudate,
pirdùneme ca te sò maltrattate;
pije ’stu ramajette, quant’addore!
Le léve da la mazze da pastore
le pose ’n derre, aggiustate, accuscì:
gnè nu tappéte pi’ li pita-ti!”
Il momento più alto di questo incontro ideale con d’Annunzio lo vedrei, però, nella versione di una lirica tra le più famose del poeta di Pescara, “Consolazione”, svolta in chiave elegiaca, con quell’attacco abbandonato e pausante (“Non pianger più. Torna il diletto figlio/ alla tua casa. È stanco di mentire” …), vivo nella memoria di tutti. La lirica fa parte, com’è noto, del Poema paradisiaco (1893) che segna una pausa per così dire crepuscolare nella produzione dannunziana, dopo la fase aridamente estetizzante delle raccolte precedenti. Qui si trovano liriche ispirate in gran parte dagli affetti, dalle memorie; basti ricordare, tra le altre, oltre quella alla madre, le due alla sorella Anna (“Il buon messaggio” e “Nuovo messaggio”), dove è ripreso il leit-motiv del “ritorno”.
Bene, Fraticelli non ci dà una pura e semplice traslazione in dialetto della lirica dannunziana, ma riesce a trasmettere nel nuovo, e tanto diverso, registro linguistico le stesse emozioni provate dal poeta nel suo nóstos sentimentale, fruibili, però, da una più larga cerchia di lettori, di estrazione popolare e non per questo meno sensibili al fascino della poesia. Mi limito a una sola comparazione:
“Ancora qualche rosa è ne’ rosai,
ancora qualche timida erba odora.
Ne l’abbandono il caro luogo ancora
sorriderà, se tu sorriderai.”
Il passo nella versione di Fraticelli suona così:
“Ti’ ’mmente: ca’cche rose ci sta ancore,
file di jervetèlle appresse appresse;
lu tempe passe, e fa … l’allungatore,
dice: si rride tu, ride pure hesse.”
Ricollegandosi allo spirito della tragedia dannunziana e in particolare alla dedica (“Alla terra d’Abruzzi … , a tutta la mia gente fra la montagna e il mare), Fraticelli chiude la raccolta con una sorta di perorazione alla Maiella, vista come “Nu munumente andiche/ ’mbustate a vracce aperte/ pi’ bbinidice,/ p’areparà lu vente/ pi’ ’ssi spiccbià’ a lu mare,/ p’ambraccià’ la ggente”! …
Il tema su cui s’innesta la più recente prova poetica di R. Fraticelli è l’Abruzzo, visto nelle sue costumanze, nel suo folclore, nella sua arte, nella natura, quell’Abruzzo da cui hanno tratto stimoli e umori poeti e artisti insigni, primo fra tutti G. d’Annunzio, che nella Maiella ha il suo referente simbolico più suggestivo e significante.
Quello di Fraticelli è un libro, nel suo ambito, da ascrivere tra i risultati più convincenti della poesia vernacola abruzzese, non solo perché nutrito e sorretto da una sincera vena ispiratrice, ma, soprattutto, perché il dialetto che egli utilizza e padroneggia con indubbia maestria, non è sovrapposto alla lingua, ma trae la sua linfa da un filone terrigeno ancora resistente, per fortuna, nella nostra regione che è, poi, quello che meglio la connota storicamente e antropologicamente.
INDICE
PREFAZIONE
Dott. Bianca De Luca, Direttrice della Pinacoteca.
PRESENTAZIONE
Prof. Ermanno Circeo.
Tra lume e lustre , 11
Terra nostre, 12
Parlature, 13
Nu cante nove, 15
Raffaele, 17
Lu sonne, 19
Vinirdì Ssante, 21
Li fije sperze, 23
La zènghere, 25
Lu migrante, 25
Segne de nozze, 27
Dimme!, 29
Lu prime fiore, 31
Pace e sonne, 31
Giugne nghe ttè, 31
Esaltazione, 34
La Figlia di Iorio (monologo I Atto – Scena V), 37
Lu San Giuvanne, 42
Consolazione, 45
Chi séme nu’?, 50
Jem’a ’sci’ ’ngòndre, 50
Muntagna mè, 51